Oggi che stiamo tutti immaginando i nuovi modi di lavorare, gli esperti di hr e organizzazione ci dicono che l’ascolto é una delle dimensioni fondamentali per strutturare una strategia di welfare e di wellbeing aziendale. Ma cos’è realmente “l’ascolto dei propri collaboratori”?

La confusione e la mancanza di chiarezza ci sono, anche se non credo siano volute. Perché quando si parla di “ascolto” bisognerebbe chiedersi prima di tutto “chi ascolta?” e in quale contesto di relazione lo fa, con quali obiettivi. Fino a prima della pandemia, chi lavorava in azienda – sia i manager che i collaboratori – tendevano a separare vita e lavoro, due ambiti ben distinti e a volte in conflitto tra loro, sul presupposto che “prima viene l’azienda”. Questo approccio rendeva impossibile un vero dialogo: difficile – se do per scontato che la “controparte” abbia interessi opposti ai miei – trovare degli scopi comuni sui quali impegnarsi, negoziare tra le opzioni considerando rischi ed impatti o, ancora, accordarsi sui modi per attuare insieme le misure e verificarne l’efficacia, pronti a modificarle in corso d’opera sulla base delle reali esigenze.

Le aziende non hanno saputo finora ascoltare. Ma i collaboratori sono stati in grado di esplicitare i propri bisogni in modo professionale?

Bisognerebbe prima saper riconoscere i propri bisogni autentici. Invece, nella nostra cultura, non veniamo allenati a distinguere tra conflitti, dilemmi – cioè la necessità di scegliere tra due cose ugualmente importanti - e i disagi, sono causati dalle scelte forzate dai dilemmi, che sono a loro volta generati dai conflitti. Da qui il fraintendimento: i bisogni emergono come soluzione del dilemma o disagio: quando diciamo “ho bisogno di quel qualcosa”, in realtà la vogliamo perché allevia la sofferenza per il disagio e la paura legate alle conseguenze della scelta. Quando le persone avvertono un disagio, tendono a chiedere “qualcosa” che risolva la difficoltà, mentre la necessità primaria, il dilemma che ha generato il disagio resta non visto o non detto. Ci si scontra volentieri sulla soluzione, la mia contro la tua, si spera di vincere, in una cultura dello scontro dei poteri e degli interessi, per definizione in conflitto tra di loro. Se la mentalità dello scontro nelle aziende non evolve, la soluzione di un problema tramite conflitto ne genera altri.

Quali sono quindi le basi per impostare una cultura del vero ascolto?

Senza un vero processo di adattamento evolutivo della cultura aziendale alle nuove condizioni, restiamo ingabbiati nei paradigmi organizzativi e nelle modalità di risposta ottime fino a ieri, ma rischiose o anche inadatte, oggi. Non posso cioè sapere prima, “a priori”, quale forma prenderanno le nuove modalità di lavoro, ma posso definire il processo per condividere con le mie persone gli scopi, cosa faremo e come lavoreremo insieme. da qui ci accorderemo su quali programmi di welfare e wellbeing saranno più adatti. Dalla mia esperienza, e per sintetizzare, cinque sono i passaggi fondamentali che di solito consentono questo change management culturale. Il primo passaggio è l’ascolto non giudicante, con la creazione di uno “spazio per la relazione” basato sul rispetto e la fiducia, sicuro, protetto, nel quale far emergere la vera cultura aziendale e, allo stesso tempo, dove poter “disinnescare” quei pregiudizi che alimentano la frustrazione dei collaboratori. Il secondo passaggio è un lavoro di ri-verbalizzazione dei contenuti, in modo da poter trasformare una frase come “nella nostra divisione serve più comunicazione” in una forma concreta e subito operativa: “Mi serve ricevere informazioni e/o feedback su questo processo, da queste persone”. Il terzo passaggio consente di trasformare i bisogni così rielaborate in progetti di soluzione partecipati e professionali. Si tratta di compilare una check-list che faccia da guida per raccogliere, in pochi minuti, gli elementi che consentono, a chi ha il potere di prendere la decisione, di valutare e di fare delle scelte in libertà, compresa quella di non fare nulla. Il quarto passaggio consiste nel preparare i capi a dare un feedback professionale sul progetto di soluzione, evitando ogni commento giudicante e mantenendo lo stesso linguaggio professionale usato dai collaboratori. E infine, ultimo passaggio, la restituzione formale che incorpora la decisione presa e definisce gli aspetti più operativi. Serve coraggio? Sicuramente sì! Ma dalla nostra esperienza non farlo può essere un’alternativa drammatica: quella di continuare a ragionare a partire dal presupposto di un insanabile conflitto tra bisogni dell’azienda e bisogni personali, tra vita professionale e vita privata. Il work life balance resta un concetto vuoto se non sappiamo negoziare i confini nello spazio personale e famigliare, visto che lo spazio dei bisogni personali, quello che doveva stare fuori dall’azienda, oggi deve per forza contenere uno, a volte due, “spazi di lavoro aziendali”, insieme a uno o più spazi di studio e di crescita per i nostri figli. Intervista a Silvio Lenares, specialista di negoziazione strategica relazionale. Coach e counselor professionista