Per comprendere bene chi è un caregiver, definizione spesso mistificata dai media e di conseguenza poco capita dalla maggior parte degli Italiani. basterebbe considerare la distinzione che la lingua inglese fa tra i verbi to cure, curare, e to care, prendersi cura, cioè interessarsi e partecipare emotivamente alle sorti di qualcuno. Il prendersi cura serve a valorizzare le qualità di una persona, a salvaguardarne la sua dignità oltre a confortarla e a non lasciarla sola. Per farlo ocorrre combinare le emozioni con i gesti di tutti i giorni: non è infatti altruismo il prendersi cura, ma un’attività dove gli interessi del caregiver e quelli di chi riceve assistenza sono inevitabilmente intrecciati. Come può un’azienda fare in modo che un’attività così faticosa, che nasce da un profondo senso di responsabilità, diventi un’esperienza sostenibile per un lavoratore caregiver e sia condivisa dall’azienda in cui lavora? E perché sono proprio le aziende a doversi impegnare per prime? Considerando i molti fattori che riguardano i temi della cura dei familiari non autosufficenti e del ruolo dei lavoratori caregiver e che trovate esposti in questa newsletter, due sono quelli che voglio sottolineare: la quasi assenza di regole condivise e di leggi che si occupino dei lavoratori caregiver e la generale mancanza di un approccio sistemico che faccia i conti con la complessità della vita (la pandemia non è che un aspetto); la necessità di un contributo a tutto tondo da parte del mondo del lavoro per trasformare l’attività di caregiver in qualcosa di positivo, di motivante e in fin dei conti di più facile da accettare e da svolgere. C’è dunque un lato positivo nel caregiving? Il mettere più risorse a disposizione dei lavoratori che sono caregiver familiari (formazione, orari flessibili, aiuto psicologico, servizi di assistenza), riduce l’impatto negativo di quello che è di fatto un doppio lavoro e rende più facile accettare le proprie responsabilità con serenità. Ma non basta. Ciò che è cruciale è l’essere riconosciuti nel ruolo di caregiver familiare perché le persone hanno necessità di agire senza restare, per così dire, nell’ombra, e di sentirsi valorizzate. Senza sottovalutare il fatto che proprio quelle doti che i caregiver sviluppano nel prendersi cura di un proprio caro (pazienza, capacità di ascoltare e capire i bisogni altrui, senso pratico nel trovare una soluzione), finiscono per avere un effetto positivo sul lavoro e nelle relazioni con i colleghi. Solo una cultura del lavoro che sostiene la vita familiare, insomma, può trasformare l’attività dei caregiver in un’esperienza positiva. É quindi molto importante che questa cultura sia sviluppata e condivisa in azienda a cominciare dai manager. Solo con un’adeguata formazione si può migliorare la loro capacità di comprendere qual è la vita delle persone con cui lavorano, corroborare il loro senso di responsabilità e, in fin dei conti, cambiare una mentalità (o mindset) che spesso esclude tutto ciò che non riguarda il lavoro.