L’innalzamento della soglia di esenzione dei fringe benefit ci racconta bene cosa è stato il corporate wellbeing negli scorsi mesi. Ma forse, prima di tutto, dovrebbe dirci cosa vorremmo che fosse nei prossimi anni.

L’aumento della soglia di esenzione dei fringe benefit, passato nel giro di qualche mese da poco meno di trecento a tremila euro (con qualche saliscendi nel mezzo), ci racconta meglio di qualsiasi definizione qual è stato il ruolo del welfare aziendale nell’ultimo, tribolatissimo anno. Due governi, le scelte di molte organizzazioni e il dibattito alimentato da buona parte dell’opinione pubblica hanno contribuito a far emergere in misura prevalente la funzione retributiva e strettamente economica di questo strumento, quale sostegno al reddito dipendente. 

Epperò il welfare aziendale non è - e per sua natura non è mai stato - soltanto questo. Sono le contorsioni degli ultimi mesi ad averci distratto dalla reale funzione del corporate wellbeing nel delicato rapporto tra aziende e persone e tra lavoro e società. Una funzione che è sempre stata duplice, ambivalente e plurale. Perché se da un lato può contribuire, come sta facendo, a un generale sollievo economico attraverso il sostegno ai sempre più bassi redditi dei collaboratori italiani, dall’altro può rispondere altrettanto efficacemente al loro bisogno di protezione sociale, mediante strumenti integrativi da affiancare al welfare state.

Un aspetto, quest’ultimo, che sembra però essere posto sempre più in secondo piano. Perché?

 

Lo scenario che penalizza uno dei “due welfare”


Una prima risposta va individuata nella complessità del contesto nel quale alcune scelte vengono prese. A condurci verso questo sbilanciamento, verso cioè un welfare più retributivo e meno sociale, è stato infatti il combinato disposto di un’inflazione ai massimi storici, l’instabilità dei mercati dovuti al delicato contesto geopolitico, e l’aggravante rappresentata da un’emergenza sanitaria che non se n’è mai andata veramente del tutto.

Ragioni che anche prese singolarmente, forse, avrebbero giustificato l’adozione di misure straordinarie di protezione del potere d’acquisto dei lavoratori. Ma che per dimensioni raggiunte e interessi coinvolti non possono non offrire il pretesto per una più ampia riflessione sul futuro del benessere organizzativo. A ben vedere, infatti, più che raccontarci cosa è stato negli scorsi mesi, l’innalzamento a tremila euro della soglia di esenzione dei fringe benefit dovrebbe dirci cosa vorremmo che fosse, d’ora in avanti, il welfare aziendale.

Le ragioni dello sbilanciamento:

  • Un’inflazione ai massimi storici
  • L’instabilità del contesto geopolitico
  • Il perdurare dell’emergenza sanitaria
  • Il declino italiano delle retribuzioni

 

Quel bisogno di cura che non può rimanere inascoltato


A guidare istituzioni e aziende è stata nell’ultimo anno la bussola dell’emergenza. Il bisogno di liquidità causato dall’aumento vertiginoso del costo della vita ha azzerato sul nascere ogni altra riflessione che non portasse a misure di integrazione al reddito. Lo abbiamo visto col “bonus carburante”, e ancora di più con la scelta di estendere il favor fiscale anche al pagamento delle utenze domestiche di acqua, luce e gas.

Accanto a queste necessità, tuttavia, i lavoratori continuano a manifestare un bisogno di protezione sociale che va oltre la premialità economica e che non può rimanere inascoltato. 

La componente sociale del welfare che piace ai collaboratori:

  • tutela della salute e del benessere, anche psico-relazionale
  • istruzione dei figli
  • assistenza agli anziani e ad altri familiari non autosufficienti
  • più inclusione e contrasto a ogni forma di discriminazione
  • sostenibilità ambientale

L’articolazione dei piani di welfare aziendale si conferma un elemento su cui i professionisti italiani fondano il proprio rapporto di fiducia con l’azienda per cui lavorano. Più di un rapporto certifica che nelle organizzazioni esiste una domanda di bisogni sociali che comprende argomenti come la tutela della salute e del benessere, compreso quello psico-relazionale; l’istruzione dei figli; l’assistenza agli anziani e ad altri familiari non autosufficienti. Oltre a una maggiore sensibilità per i temi più etici, che vanno dall’inclusione sociale alla sostenibilità ambientale. Tutti argomenti di cui si riconosce la centralità sul piano teorico, ma che poi in pratica sembrano faticare nella competizione contro misure apparentemente più immediate come i fringe benefit.

 

Il ruolo delle organizzazioni per il ritorno a un welfare a doppia funzione 


L’imprevedibiltà dei prossimi mesi rende dunque difficile qualsiasi previsione sul futuro del welfare aziendale. Fatta salva la centralità che si sta ritagliando nel mercato del lavoro di domani, ogni altro aspetto legato alla sua evoluzione non può essere pronosticabile. Molto di ciò che possiamo attenderci, dipenderà insomma dal modo in cui muterà il contesto generale e con esso i bisogni dei collaboratori. 

Ma accanto a questo, per il ritorno a un welfare delle origini, quello a doppia trazione (retributiva e sociale), a fare la differenza sarà anche il ruolo che le organizzazioni decideranno di svolgere nel lungo e necessario processo di sensibilizzazione delle proprie persone. Dipenderà cioè dal modo in cui nelle aziende saranno interpretati i nuovi e i vecchi bisogni personali, e partendo da quelli si procederà a comporre piani integrati di corporate wellbeing. Un impegno rispetto al quale gli stessi provider, nella veste di facilitatori del benessere organizzativo, non intendono sottrarsi.

Il welfare con cui ci confronteremo il prossimo anno non sarà lo stesso degli ultimi dodici mesi. Né, con tutta probabilità, quello che conosceremo tra due anni, e poi in quelli a venire.

Ma sarà la proiezione degli sforzi fatti dalle organizzazioni per trasmettere al proprio interno la reale, duplice funzione del corporate wellbeing. Anzi, per meglio dire, sarà la loro diretta conseguenza. 

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Valerio Sordilli - giornalista e contributor Jointly