Il piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) ha tra le sue priorità strategiche anche il contrasto alle disuguaglianze di genere. E a livello normativo c’è già un primo risultato: la certificazione per le aziende

In Italia le disuguaglianze di genere si esprimono non solo nella sfera lavorativa, ma anche familiare, educativa, sociale e sanitaria. Ancora oggi meno di una donna su due lavora (il 49%, contro una media europea del 62.4%) – nonostante il tasso di laureate sia più alto – e oltre il 53% delle mamme abbandona la professione per i carichi famigliari. Questo gap non è solo economico, ma anche culturale, se è vero che occupano più del doppio (2,4 volte) del tempo rispetto agli uomini in lavori di cura non pagati. E si traduce anche in una maggior discontinuità contributiva che pesa a livello previdenziale.

L’Italia in sintesi – questo l’approccio nel PNRR – non sta valorizzando a pieno le proprie risorse e una maggior partecipazione femminile al mercato del lavoro potrebbe portare un beneficio economico, oltre che sociale e culturale, a tutto il Paese.

34 le misure per ridurre le diseguaglianze nel PNRR

Nel rapporto della Ragioneria Generale dello Stato sul potenziale contributo del PNRR per ridurre le diseguaglianze di genere ci sono 34 misure previste – di cui 4 hanno l’obiettivo esplicito di abbattere questo divario – e circa 40 miliardi di euro stanziati.

L’obiettivo, per il triennio 2024-2026, è di arrivare a un incremento del lavoro femminile del 4%, un risultato che sarà possibile attivando progetti di varia natura, che vanno dalla formazione fino all’inserimento lavorativo e passano per il sostegno alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. In questo senso un welfare a misura di famiglia è un elemento cruciale, che non si limita alle infrastrutture scolastiche ma si estende ai servizi socio-assistenziali.

E se il dibattito è aperto sull’impatto complessivo e la loro dotazione finanziaria, a livello normativo ci sono già importanti novità. La Legge 5 novembre 2021, n. 162, ha infatti modificato in maniera significativa il codice delle pari opportunità (D.Lgs. 2006, n. 198) introducendo la certificazione della parità di genere, con sistema premiale, oltre ad aver esteso l’obbligo della relazione biennale sulle forze lavoro alle aziende con più di 50 dipendenti e ampliato la nozione di discriminazione sul lavoro.

“La certificazione – si legge nel documento del Mef – mira a favorire la riduzione dei divari nella crescita professionale delle donne e il rispetto del principio di parità retributiva, attraverso un rafforzamento della trasparenza salariale, all’interno delle imprese”. Il sistema punta a coinvolgere entro il 2026 almeno 800 imprese, di cui la metà (450) piccole e medie che potranno beneficiare di un contributo per completare il processo di certificazione.

La certificazione: volontaria, ma con premialità

La certificazione di genere ha una natura premiale e non sanzionatoria e punta a favorire un cambio culturale all’interno delle aziende anche più piccole, che sono il tessuto imprenditoriale del nostro Paese. Per questo non sarà obbligatoria – come lo è invece la dichiarazione biennale sulle forze lavoro, ma ci sarà un sistema incentivante per chi la compila.

I 50 milioni di euro stanziati serviranno infatti ad esonerare le aziende aderenti dal versamento dei contributi, con un tetto dell’ 1% e un limite di 50 mila euro, ma sono allo studio altre misure compresa una modifica al codice degli appalti che premi le aziende più attente alla parità di genere.

Come funziona: la misurazione in 6 aree, con revisione biennale

La nuova prassi 125 scritta dall’ Ente Italiano di normazione (UNI/PdR 125:2022) ha come obiettivo di avviare un percorso di cambiamento culturale effettivo e misurabile nelle organizzazioni e ha quindi identificato 6 aree di valutazione. Un’azienda sarà valutata in base alla propria:

  • cultura e strategia
  • governance
  • processi HR
  • opportunità di crescita e inclusione delle donne
  • equità remunerativa
  • tutela della genitorialità e la conciliazione vita-lavoro

Per ognuna di queste aree ci sono una serie di indicatori – in tutto 33 elementi strategici di misurazione– i così detti KPI (key performance index) – in grado di guidare il cambiamento, rendendolo misurabile e quindi migliorabile. Per avere la certificazione è previsto il raggiungimento di un punteggio complessivo del 60%, con un modello di calcolo dinamico.

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Anna Zavaritt – giornalista e contributor Jointly