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L’importanza, sul lavoro, di chiamare le cose col proprio nome

È stata la parola dell’anno nelle direzioni HR di mezzo mondo. E ci sono buone probabilità che quiet quitting finisca nel dizionario del lavoro anche nel 2023. Perché in un contesto globale segnato dalla penuria di talenti, lasciare che una quota della forza lavoro partecipi distrattamente alla vita d’impresa è un lusso che poche organizzazioni potranno concedersi. Tanto più se dall’altro lato, per contrastare il disimpegno e continuare ad attrarre i migliori collaboratori, gli investimenti in corporate wellbeing dovessero aumentare sensibilmente. E allora forse vale la pena capirlo meglio, questo fenomeno. Analizzare le regioni che gli stanno alla base, valutare possibili rimedi. In una bella riflessione di Ally MacDonald che abbiamo rilanciato nel corso dell’anno, le cause all’origine del quiet quitting vengono separate dalla retorica che spesso accompagna anche le migliori analisi sul futuro del lavoro. E soprattutto ha il merito di chiamare le cose col loro nome. Senza dimenticare che negli ultimi anni più di qualche elefante si è aggirato indisturbato nelle stanze di chi avrebbe dovuto traghettare le organizzazioni verso modelli human-oriented. Ricordando, ad esempio, che ogni nuovo assunto è sottoscrittore di due contratti con la propria azienda: uno ufficiale, l’altro psicologico. E che oggi, tra i due, è il secondo a valere di più.

Per approfondire QUI.

 

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La ricetta (senza retorica) di Marisa Hall

A dispetto di un titolo retorico che sa molto (troppo) di “ricetta magica per vincere le sfide del futuro” - format che di solito spopola tra novembre e gennaio e che va sempre maneggiato con una certa cautela - questo articolo è in realtà una interessante e lucidissima analisi sul futuro del lavoro firmata da Marisa Hall, responsabile del Thinking Ahead Institute, una rete internazionale e senza scopo di lucro che si occupa di investimenti incentrata sulla mobilitazione di capitali per un futuro sostenibile. Un esempio: il lavoro ibrido. Oggi non c’è una organizzazione che si dica contro questa modalità di gestione e che non assicuri di aver adottato soluzioni ibride per avvicinarsi al crescente bisogno di flessibilità espresso dai collaboratori. Bene, ma quante di queste organizzazioni poi verificano l’impatto di queste scelte sulla popolazione aziendale? Quante sanno che quasi ⅓ di quei collaboratori si sente escluso dalle dinamiche quando non è in azienda? E se questo aspetto vi intriga, allora il passaggio sulla rinascita dell’organizzazione human-centered potrebbe valere da solo il tempo di lettura.

Lo trovate QUI.

 

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Era ieri. Ma sembra un po’ anche oggi

Tornare sulle letture più stimolanti dei dodici mesi precedenti può trasformarsi a volte anche nell’occasione per fare un piccolo tagliando della strada percorsa. Da questa prospettiva, riprendere la riflessione con cui Paul Knopp apriva un anno fa un 2022 che si preannunciava a dir poco delicato per le organizzazioni di tutto il mondo (sappiamo bene com’è andata a finire) potrebbe rivelarsi un esercizio due volte più interessante. In quell’analisi, affidata al suo profilo LinkedIn, il Chair e CEO di KPMG US tracciava le coordinate che le direzioni HR avrebbero a suo dire assolutamente dovuto intraprendere: non tanto per scampare alla tempesta perfetta che di lì a poco si sarebbe abbattuta sulle economie mondiali, e a cascata su quelle delle loro organizzazioni, quanto per dotarsi degli strumenti migliori per resistere all’urto. Di cosa parlava? Di supportare il wellbeing dei collaboratori; di favorire la flessibilità e incentivare politiche DE&I; di dimostrare un commitment reale per l'apprendimento e il miglioramento continuo delle persone in azienda. Era esattamente dodici mesi fa. È, evidentemente, anche oggi.

L’articolo di Paul Knopp lo trovate QUI.

 

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Conoscere le persone e/è conoscere il business

L’insoddisfazione delle persone ha un costo. Sostituire collaboratori insoddisfatti ha un costo. Coltivare nuovi talenti ha un costo. Trasferire knowledge in professionisti esperti, ma nuovi in azienda, anche questo ha un costo. Un articolo di FastCompany.com, che abbiamo rilanciato nel corso dell’anno, smontava senza appello le argomentazioni di chi, in piena great resignation, continuava a inseguire una visione business centered dell’azienda a scapito di un modello invece più orientato al benessere delle persone e al ritorno che questo genera in termini di performance individuali di produttività globale. Nella sua acuta analisi, che fa da pilastro all’articolo, Eric Mosley, CEO e cofounder di Workhuman, affrontava in maniera molto dettagliata il tema del people caring in ottica retention. Mostrando come prendersi cura delle proprie persone, per un’organizzazione, rappresenti oggi l’unica strada sicura per contenere la parte più significativa dei costi legati al personale. E quindi, in altre parole, per fare business in maniera diversa. Dopotutto, per dirla con le parole di Simon Sinek, esperto di organizzazione aziendale e anche lui citato da noi più volte durante l’anno: “100% of employees are people. 100% of customers are people. 100% of investors are people. If you don't understand people you don't understand business”.

Per recuperare l’analisi di Mosley, QUI.