Mettersi insieme, fare rete, tra le aziende, tra le istituzioni, nel lavoro e nella vita. Basta accostarsi per un momento all'identità culturale che sta dietro la nostra Idea di Welfare Condiviso per capire che avere più forza nel ''dare un aiuto'' non è un’idea nuova, ma non sempre facilmente realizzabile per via  di Individualismi mai sopiti (anche da parte di chi si dovrebbe occupare di sociale)

di Fabio Galluccio

Dalle società di mutuo soccorso alla Sharing  Economy 

Pensiamo per un attimo a ciò che erano le società di mutuo soccorso dei primi del ‘900: associazioni nate per coalizzarsi e mettere in comune risorse proprie per offrire mezzi di sostentamento ai consociati. Oggi chiameremmo senza dubbio questo modo di operare ''sharing economy'', anche perché il tema dell'aggregazione della domanda di sostegno è tornata ad essere un focus fondamentale dei governi e della società. In questo le iniziative di welfare aziendale hanno dato una forte spinta; e ciò è avvenuto  non solo in chiave di autotutela, sotto forma di mutue e di assicurazioni/previdenze integrative, ma anche dal punto di vista di chi offre servizi: unire la domanda produce economie di scala, riduce la frammentazione, crea massa critica. Come scrive Sergio Pasquinelli su Wellforum,  ci sono libri che mettono voglia di discutere. E quello curato da HousingLab - Cohousing. L’arte di vivere insieme (Altreconomia, 2018), appena uscito, è fra questi.  

Buone pratiche...ma quanti ostacoli! 

Dietro molta narrazione ottimistica e buone pratiche rimangono però ostacoli importanti, vediamone qualcuno:
Per esempio aggregare la domanda delle famiglie attraverso mutue territoriali con cui sostenere sia i propri associati (intercettati utilizzando grandi bacini associativi o aziendali) sia chi vi contribuisce in modo volontario. Mutue che si possono collegare a fondi sanitari integrativi per offrire servizi sociali e sociosanitari. Allo stato attuale si tratta di esperienze limitate per numero e nelle dimensioni, anche se molto interessanti, come Unisalute del gruppo Unipol.
Rimangono aperte diverse domande in prospettiva, per esempio:
  • come incentivare la mutualità nel lavoro atipico e partite Iva?
  • Quali i vantaggi rispetto a schemi assicurativi tradizionali? 
l tutto in un contesto culturale in cui, secondo Sergio Pasquinelli, per un trentenne è bassa la propensione ad assicurarsi out of pocket contro i malanni che potrà avere da anziano. Resistenze culturali che si possono riscontrare anche ad un livello più micro: 
E’ il caso per esempio della badante di condominio: figura molto idealizzata ma ancora poco diffusa. In una indagine dell’Università Bocconi su un campione di anziani in Emilia Romagna, solo il 24 per cento si è dichiarato disponibile a condividere una badante con altre famiglie all’interno del proprio condominio o quartiere. Meno forse sugli “asili nido”  o “baby-sitter”condominiali come le Tagesmutter, che hanno successo in Trentino-Alto Adige, ma che si stanno estendendo in altre realtà regionali.
Certo aggregare la difformità è complicato e costoso. L’anziano solo, non autosufficiente, ha bisogno di un rapporto uno a uno con la sua badante: dentro questo rapporto non ci sono margini per una sovra-struttura organizzativa, per quanto leggera, che intenda fare impresa sulla non autosufficienza. Lo sanno bene le imprese sociali che ci hanno provato.   

Fiducia e vicinanza alla base dei rapporti

L’esperienza di molti progetti mostra come il welfare collaborativo porta ad avvicinare persone con caratteristiche a volte anche diverse, ma per piccoli gruppi. Nelle esperienze di co-housing ben illustrate nel libro richiamato in apertura, intese come gruppi di famiglie che vivono in situazioni di prossimità, che condividono spazi e aiuti reciproci, i due terzi dei casi censiti contano meno di 20 alloggi. Vengono in mente le esperienze delle Comuni degli anni 70 che non nascevano come co-housing e forse con finalità diverse , ma che alla fine rispondevano a molte delle esigenze che oggi riscontriamo. I corsi e i ricorsi storici. La visione del welfare (italiano) ci porta a sottolineare la distanza breve tra le persone, le diffidenze verso le grandi agenzie di cui non si conoscono i volti e le persone, la vicinanza come valore. Ecco perché la qualità delle prestazioni fornite diventa tema fondamentale.  

Creare fiducia e relazione nell'era delle piattaforme digitali

Nella sharing economy va da sé che le piattaforme digitali possono essere un mezzo aggregativo potente, ma devono essere maggiormente personalizzate e parlare anche con volti e voci alle persone. In più è necessario da parte di chi gestisce queste piattaforme, un controllo di qualità serrato sulla offerta di servizi. Le relazioni “lunghe” non viaggiano sulle piattaforme digitali, perché hanno bisogno di fiducia. Nei siti della sharing economy questa si alimenta attraverso il sistema dei feed back.  Meccanismo ancora del tutto estraneo, e forse inadeguato, alle piattaforme di welfare sociale. Così i portali “social hanno ancora una funzione prevalentemente informativa, e con molta fatica riescono, nel cerchio virtuale del loro spazio, a realizzare transazioni, match domanda/offerta. La maggioranza informa e al più facilita accordi che si compiono altrove. Ecco perché è importante conquistare la fiducia delle persone attraverso informazione e formazione. Secondo Pasquinelli, le piattaforme che aggregano soggetti diversi (spesso cooperative sociali, ma, diciamo noi, tutte le piattaforme di welfare aziendale) e che offrono servizi sociali e sociosanitari, hanno bisogno di una governance completamente nuova. Chi rimane sul piano della somma dei soggetti coinvolti, tutti regolarmente presentati con indirizzo, telefono ecc., non può aspettarsi altro che una informazione in più: una vetrina in cui ciascuno continua a rivendicare la sua fetta della torta.
Il salto di qualità avviene se ci si riesce a fondere in una entità nuova, capace di parlare con una voce, ma farsi conoscere, attraverso le proprie persone e i propri partner, i propri operatori ed i propri contatti.
Perché nulla di più umano è il rapporto di aiuto alle persone che lo richiedono e di lavoro giornaliero per il benessere delle stesse. Nelle aziende, terreno a noi più noto, diremmo che un welfare aziendale senza politiche di people caring è un boomerang che crea probabilmente più danni che vantaggi. E’ anche qui che si gioca la sfida di un welfare  più prossimo, come scrive Sergio Pasquinelli, che ringraziamo, per farci riflettere su questo tema anche per noi fondamentale.