Secondo i dati InfoCamere sono quasi quadruplicate le imprese che hanno scelto di perseguire, oltre al profitto, un "beneficio comune": oggi sono più di 2mila

L’Italia è stato il primo Paese dell’Unione europea nel 2016 a introdurre questa nuova forma societaria, che è un’evoluzione del concetto stesso di azienda. Mentre le società tradizionali esistono con l’unico – o comunque il principale - scopo di distribuire dividendi agli azionisti, le società benefit integrano nel proprio oggetto sociale, oltre agli obiettivi di profitto, anche quello di avere un impatto positivo sulla società e sull’ambiente.

Per diventare una società benefit va infatti cambiata la forma giuridica: per statuto vengono individuati obiettivi di sostenibilità ambientale e sociale, con ricadute dirette sulla responsabilità degli amministratori. Questo implica quindi un obbligo formale per l’azienda, ovvero quello di presentare nella relazione annuale una valutazione di impatto sugli obiettivi di bene comune.

Secondo i dati InfoCamere sono quasi quadruplicate le imprese che hanno scelto di perseguire, oltre al profitto, un "beneficio comune": oggi sono più di 2mila, mentre nello stesso periodo del 2020 erano poco più di 500.

La quasi totalità (97%) sono società già costituite (dalle S.r.l passando per le start up fino alle S.p.A quotate in borsa), un terzo delle quali, residenti in Lombardia e molte guidate da imprenditori giovani e più sensibili alle tematiche di impegno sociale ed ambientale.

Particolarmente attenti all’impatto socio-ambientale sono le realtà nel settore dei servizi (976), del manifatturiero (254) e del commercio (169).

Questo cambio di paradigma ha beneficiato anche di un incentivo dal Governo, che tra il 2020 e il 2021 ha concesso un credito di imposta per ammortizzare le spese di avviamento o trasformazione di un’azienda preesistente in società benefit (per il 50%, o un massimo di 10mila euro).

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Anna Zavaritt - giornalista e contributor Jointly